“No” è forse la parola più forte ed efficace in ogni lingua, è un termine rilevante perché lo usiamo per proteggere noi stessi e per difendere ciò a cui teniamo. D’altro canto però pronunciare un “no” sbagliato può danneggiare i rapporti con le persone a cui siamo affezionati. Ne deriva che è vitale imparare a padroneggiare i nostri “no” e ad affrontare quelli che ci dicono gli altri. Tuttavia è anche radicata in ognuno di noi la convinzione generale di non essere così liberi di dire di no poiché non si dovrebbe negare nulla alle persone che amiamo. Questa convinzione è errata, vediamo il perché e contestualizziamo il discorso alla relazione genitore-figlio.
Un bambino piccolo acquisisce la capacità di dire “no” all’incirca dopo i due anni. È in questo periodo che diviene la parola da lui più usata. I genitori, tra i loro numerosi compiti educativi, coltivano nei figli la passione e il coinvolgimento nel mondo e al tempo stesso insegnano loro ad adattarsi alle regole della società. A tal fine il saper dire di no è uno strumento prezioso anche perché dire appropriatamente di no serve al bambino per distinguere con chiarezza il confine sfumato tra fantasia e realtà che è tipico dell’età compresa tra i due e i cinque anni. I no detti da un genitore servono per proteggerlo dai pericoli, per disilluderlo da un falso senso d’indipendenza che da solo il bambino tende a crearsi. Dicendo “no” a nostro figlio, fissiamo dei limiti, gli forniamo un modello che lo aiuterà a cavarsela quando si sente sopraffatto. Se i no che imponiamo sono sensati e argomentati, nostro figlio si sentirà comunque sicuro del suo posto in famiglia e comincerà a sviluppare le proprie risorse. Un genitore che a tempo debito e con appropriatezza dice no a suo figlio, gli insegna come dar voce ai propri bisogni e obiettivi relazionandosi con gli altri pur rispettandoli. Il no è un insegnamento quando respinge gli attacchi e i tentativi di manipolazione, quando riduce stress e ansia, quando pone dei confini di rispetto sui quali ragionare in termini di coppia e non di egoismo individuale.
Tuttavia non occorre neanche mitizzare troppo i no.
“Ma quante volte è giusto che dica di no a mio figlio?” Spesso il genitore si trova combattuto poiché senza volerlo si trova ad alternare l’incapacità e impossibilità di dire di no con l’usarlo in modo troppo forte e frequente. Occorre un giusto equilibrio ma prima ancora occorre saper offrire un significato alle nostre argomentazioni. I no sono l’alter ego del sì e non possiamo pensare di insegnare la comprensione del rifiuto senza passare anche attraverso il concedere. Un’altra delle caratteristiche che colpisce di più di un bambino tra i due e i cinque anni è il gusto per le attività nuove e per la voglia di sperimentarsi da solo, anche se quest’espressione di orgoglio spesso esaspera i genitori. Il bimbo che chiede di allacciarsi la felpa da solo, di mangiare senza essere imboccato, di piegare un foglio per conto suo, sono esempi di attività a cui non va certo detto di no, ma che, anche se richiedono molta pazienza, vanno concesse. I figli hanno bisogno di pratica e di riconoscere nello sguardo del genitore un compiacimento, non freniamo dunque il loro entusiasmo e non frustriamo le loro aspirazioni. Allo stesso modo però un genitore deve avere ben presente che raramente le concessioni fatte per il quieto vivere si rivelano efficaci… “se mi lasci parlare tranquilla al telefono poi dopo ti leggo una storia” non porta da nessuna parte in termini di relazione o di educazione.
La psicoterapeuta Phillips, nel conosciutissimo libro I no che aiutano a crescere, argomenta come una delle funzioni svolte dal no genitoriale sia quella di sviluppare i “muscoli emotivi” del figlio, di dargli un’opportunità di riflessione su ciò che sia adeguato e meno, giusto o sbagliato. È un modo per insegnar loro a tollerare la frustrazione e a sviluppare un sentimento di gratitudine nei confronti delle situazioni in cui si concede o si condivide un Sì.
Dire di no, nelle sue varie forme, significa essenzialmente stabilire una distanza fra un desiderio e la sua soddisfazione. Certi aspetti della prima educazione dei bambini sono profondamente associati alla capacità di dire no di un genitore e alla capacità acquisita di accettare un no da parte del bambino. Per esempio la tolleranza della separazione (per lasciare il bambino a scuola, dai nonni, con la tata…), lo svezzamento, il pianto, portano in primo piano la questione dei limiti.
Conosciamo tutti la forte determinazione che può spingere un bambino a raggiungere i suoi obiettivi, il problema talvolta non è quello di alimentarla, semmai frenarla quando è chiaramente controproducente. Già Collodi in Le avventure di Pinocchio sintetizzò bene l’impossibilità di far cambiare idea a un giovane usando il solo no moralista.
“Dai retta a me, ritorna indietro” dice il grillo a Pinocchio. / “E io voglio andare avanti” / “L’ora è tarda” / “Voglio andare avanti” / “La nottata è scura” / “Voglio andare avanti” / “La strada è pericolosa” / “Voglio andare avanti”
Non è nell’andare avanti che Pinocchio ottiene di diventare bambino (ovvero di crescere e di diventare adulto), anzi avanzare in modo testardo e senza sufficienti capacità, lo espone solo a rischi, ma allo stesso modo non è neanche nell’impedire a nostro figlio di andare avanti che gli si permette di crescere. È piuttosto nella capacità di argomentare al proprio figlio le concessioni e le negazioni fino a fargliele comprendere, dandogli un significato che permetta al bambino di accettarle anche se scomode.